Prendendo spunto da un articolo apparso nel Sole 24
ore di lunedì 1 febbraio vediamo di capirci qualcosa su questa bad bank (BB).
Per capire cos’è una BB
facciamo un esempio.
Supponiamo che in un
Paese ci sia una grave crisi economica. Molte imprese falliscono e non riescono
a ripagare alla scadenza i debiti che avevano contratto con le banche; oppure,
rimandano il pagamento degli interessi. È una cattiva notizia per le imprese,
ed è ovvio. Ma è anche una cattiva notizia per le banche, che vedono
ingrandirsi i crediti dubbi (le cosiddette “sofferenze”) e rischiano di andare
in crisi anch’esse. Ed è, di nuovo, una cattiva notizia per le imprese, perché
le banche, sofferenti, tirano in barca i remi dei prestiti o chiedono ad altre
imprese di rientrare dai loro fidi (“rivogliono indietro l’ombrello quando
piove”). E così facendo la crisi si aggrava, perché la stretta sui prestiti
sottrae al sistema economico quel cruciale lubrificante che è il credito. La
crisi, insomma, rischia di diventare cronica, se non di avvitarsi in una
spirale depressiva. Come uscirne?
A questo punto entra in
giuoco la BB. Ma cos’è la BB?
La BB è una banca che non è una banca come la intendiamo noi (cioè un’istituzione che prende depositi e fa prestiti). È, diciamo, un veicolo societario al quale la “banca buona” (non la chiamiamo BB, se no confondiamo le idee – chiamiamola BM, la “banca madre”) trasferisce i suoi crediti, incagliati o “sofferti” che siano. Così la BM, alleggerita da quelle tossine che avvelenavano i suoi bilanci, può nuovamente fare il suo mestiere, tornare a prestar soldi e raccogliere capitali, da depositanti o da sottoscrittori di obbligazioni che non siano più preoccupati per la sorte della banca.
La BB è una banca che non è una banca come la intendiamo noi (cioè un’istituzione che prende depositi e fa prestiti). È, diciamo, un veicolo societario al quale la “banca buona” (non la chiamiamo BB, se no confondiamo le idee – chiamiamola BM, la “banca madre”) trasferisce i suoi crediti, incagliati o “sofferti” che siano. Così la BM, alleggerita da quelle tossine che avvelenavano i suoi bilanci, può nuovamente fare il suo mestiere, tornare a prestar soldi e raccogliere capitali, da depositanti o da sottoscrittori di obbligazioni che non siano più preoccupati per la sorte della banca.
Detto così, sembra
l’uovo di Colombo. Ma ci sono dei particolari che non sono chiari. Primo: queste sofferenze vengono trasferite
alla BB a titolo oneroso o gratuito? Oneroso, certamente.
E perché non a titolo gratuito?
Se fossero a titolo
gratuito, la BM farebbe più presto a cancellare quei crediti come inesigibili.
E perché non lo fa?
Per due ragioni: perché
non tutti quei crediti sono inesigibili (sofferenza non vuol dire morte); e
soprattutto perché, se dovesse cancellare quei crediti “hic et simpliciter”,
dovrebbe registrare una corrispondente perdita nei suoi bilanci...
ma le banche non hanno già un fondo svalutazione
crediti che serve appunto ad assorbire quelle perdite?
...Sì, ma la mole delle
sofferenze è tale che quei fondi non bastano. La cancellazione di quei crediti,
o il loro trasferimento a titolo gratuito, porterebbe a perdite talmente grosse
che le banche fallirebbero, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.
D’accordo, allora quelle sofferenze vengono
trasferite alla BB a titolo oneroso. Ma quanto oneroso? Chi stabilisce il
prezzo?
Questo è, naturalmente,
il punto fondamentale. Mettiamo che il valore nominale di quei crediti sia 100.
A quanto si possono trasferire? 20, 50, 80...? Ogni prestito in sofferenza ha
una storia a se e le probabilità di rientrare in tutto o in parte di quel
credito sono diverse. Si tratta di fare una disamina caso per caso, e poi di
fare una media dei risultati.
Allora, mettiamo che da
questa media venga fuori un valore di 60. Ma cosa succede se, a questo prezzo,
e anche tenendo conto del ricorso al fondo svalutazione crediti, la banca finisce col registrare sul
bilancio perdite insostenibili?
Succede che a questo
punto non si può ricorrere alla BB. Per evitare il fallimento della BM bisogna
pensare ad altre soluzioni. Come la fusione di quella BM con un’altra banca più
solida o la ricapitalizzazione a opera dello Stato, che in pratica è una
nazionalizzazione della banca. Il ricorso alla BB è possibile solo nei casi in
cui una cessione delle sofferenze a prezzi realistici non sia tale da scassare
i bilanci della banca.
Torniamo allora alla cessione a titolo oneroso. La BM incassa, ma chi paga?
La BB.
La BB.
Nella storia economica
del dopoguerra vi sono stati, in Europa e in America, molti casi di BB, con soluzioni
diverse per il finanziamento. Il meccanismo escogitato oggi per l’Italia è il
seguente. Viene creato un veicolo societario (Spv, Special purpose vehicle),
giuridicamente distinto dalla BM, al quale la BM trasferisce le sofferenze. La
Spv cartolarizza questi prestiti: cioè li “impacchetta”, creando delle
obbligazioni che sono garantite (si fa per dire) dalle sofferenze sottostanti.
Queste obbligazioni vengono vendute al pubblico, a investitori istituzionali o
privati, e, col ricavato di questa vendita, la BB paga alla BM il valore
convenuto.
Queste obbligazioni sono tutte eguali?
No, sono divise in
tranche, a seconda del grado di rischio delle sofferenze sottostanti. Queste
tranche si dividono in “Junior”, “Mezzanina” e “Senior”, con le “Senior” che sono
le più sicure (o meno insicure).
Ma che interesse hanno gli investitori ad
acquistare queste obbligazioni cartolarizzate?
Queste obbligazioni
frutteranno un interesse che può essere giudicato interessante dagli
investitori.
Ma da dove vengono i soldi per pagare questi
interessi?
La Spv continua a
gestire le sofferenze e raccoglie quel che raccoglie, come interessi e
restituzione di capitale, dai prestiti in sofferenza (molti dei quali sono
assistiti da garanzie reali). Con quel che raccoglie la Spv serve il prestito
obbligazionario che ha emesso.
Ma gli investitori
possono essere preoccupati che quei crediti siano davvero inesigibili. Non avranno bisogno di qualche forma di
garanzia?
Quando la Fiat o la
General Motors, o la Siemens o lo Stato francese emettono obbligazioni, non ci
sono garanzie da parte di nessuno. Ogni emissione obbligazionaria comporta, da
parte di chi compra, l’accettazione di un rischio, e questo rischio è già
prezzato nella misura del rendimento. Chi voglia stare sul sicuro può comprare
un’assicurazione contro il rischio di default da parte dell’emittente.
Ma dietro queste
obbligazioni che si appoggiano su crediti in sofferenza non c’è il nome di una
grande azienda o di uno Stato sovrano. Non
sarebbe meglio assortirle con qualche forma di garanzia?
È stato fatto. L’accordo
fra il Governo e la Commissione stabilisce che le tranche “Senior” possano
essere assortite di una garanzia concessa dallo Stato italiano dietro pagamento
di una commissione da parte delle banche che hanno ceduto i prestiti in
sofferenza. Questa garanzia facilita il collocamento delle obbligazioni
cartolarizzate.
Ma le assicurazioni
contro il rischio di default già esistono nel settore privato, e sono state
ampiamente usate. Perché lo Stato
italiano deve essere lui a dare queste garanzie e non lascia fare al mercato?
La mole delle sofferenze
è tale che presentano un rischio sistemico, ed è giusto che siano i poteri
pubblici a intervenire. Il ricorso al mercato per questo tipo di garanzie
sarebbe stato più costoso.
Questo non vuol dire, però, che lo Stato finisce
col sussidiare questa operazione facendo pagare la garanzia meno di quanto
sarebbe costata ricorrendo al mercato?
Un assicuratore privato
avrebbe prezzato la garanzia aggiungendo, alla probabilità attuariale di finire
col dover pagare in caso di default, un margine di profitto. Lo Stato italiano,
che, come gli altri Stati, è un’organizzazione non profit, può ignorare questo
margine.
Rimane il fatto che,
facendo pagare una garanzia meno di quanto l’avrebbe fatta pagare il mercato,
si introduce una distorsione della concorrenza. La Ue potrebbe considerare
questa operazione come un aiuto di Stato.
In effetti i negoziati
con la Commissione hanno scavato a lungo nei dettagli tecnici di questa
garanzia e alla fine la Commissione ha convenuto che non si tratta di un aiuto
di Stato, ma di un’operazione di mercato. Hanno aiutato ad arrivare a questa
conclusione due fattori: primo, il fatto che un mercato per operazioni di
questa mole non esiste, e quindi c’è una certa latitudine nel decidere se
questa operazione è di mercato o non di mercato; secondo, l’abilità dei
negoziatori italiani, e una buona disposizione, anche da parte della
Commissione, a evitare scontri frontali.
Alla fine, qualcuno rimarrà col cerino acceso in mano? Se
c’è una garanzia dello Stato, non saranno poi i contribuenti a pagare?
La possibilità teorica
c’è, ma in ogni caso la garanzia è stata concessa solo per le tranche “Senior”,
quelle più sicure. In questi decenni queste forme di BB sono state messe in
opera in vari Paesi e i risultati sono stati generalmente incoraggianti. Il
ministero dell’Economia afferma che l’operazione non comporterà oneri per il
bilancio dello Stato e, al contrario, potrebbe rivelarsi positiva, dato che i
“premi” che lo Stato incassa saranno maggiori degli esborsi prevedibili.
Un’affermazione che non è matematicamente esatta, ma che sembra ragionevole
sulla base dell’esperienza storica, che ha visto in altri Paesi molti casi di
BB o di altri tipi di salvataggi pubblici rivelarsi profittevoli per le casse
dello Stato.
Così sarà risolto una volta per tutte il
problema delle sofferenze bancarie?
Sarebbe bello se così fosse. Verrebbe risolto il problema delle sofferenze
pregresse, ma non di quelle che si creano nel presente e di quelle che si
creeranno nel futuro. Per queste la sola soluzione sta nel ritorno alla
crescita dell’economia. Non per nulla il problema che stiamo cercando di
risolvere si è creato lungo anni di crisi, con una perdita di 9 punti di Pil e
un aumento di 5 punti di disoccupazione (dal 2007 al 2014). Le sofferenze sono
un effetto e non una causa della crisi, anche se possono, come detto sopra,
diventare a loro volta una causa, indebolendo le banche. Ma la soluzione vera
sta in un ritorno della domanda, della voglia di spendere, rischiare e
investire, innescata da maggiore fiducia e da politiche economiche volte a
favorire la crescita.
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