martedì 25 marzo 2014

LUIGI EINAUDI TRA I PIU' GRANDI LIBERALI D'ITALIA


Luigi Einaudi, uno tra i più grandi liberali italiani: economista, pensatore, giornalista, membro dell’assemblea Costituente, presidente della Banca d’Italia (1945-48), ministro del Bilancio (1947-48) e presidente della Repubblica (1948-1955). 



La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica”. 



Questa è la frase che più di ogni altra simboleggia il pensiero politico ed economico einaudiano. Esponente del pensiero liberista e federalista europeo, Einaudi è convinto che il liberalismo debba svilupparsi concretamente in tutti gli aspetti della vita politica, sociale ed economica di un uomo. Einaudi introduce dunque alcune novità nella politica economica dei liberali italiani: a suo parere vi è una mutua implicazione tra liberalismo e liberismo, discostandosi in questo dalle teorie di Benedetto Croce, che preconizzava il liberalismo italiano come un affare innanzitutto morale. La parola liberismo infatti per Croce differenzia le libertà economiche dalle libertà civili, attribuendo alle seconde un rango nettamente superiore alle prime. 

Einaudi invece, pur riconoscendo questa distinzione, ne riduce le distanze affermando che le libertà civili e le libertà economiche sono reciprocamente dipendenti: ciascuna forma di libertà emerge solo in presenza delle altre. Secondo Einaudi, il liberismo non è semplice economicismo. Rifacendosi ai classici anglosassoni del pensiero liberale (John Stuart Mill e John Locke su tutti), egli esalta l'individualità, la libertà d'iniziativa, il pragmatismo. La libertà funziona solamente laddove è esplicata nella sua completezza: un liberale "completo" è anche "liberista", perché tenta di applicare una reale corrispondenza tra ideale di libertà e società concretamente libera. Secondo Einaudi, in un regime statalista la vita sociale ed economica è destinata alla stagnazione: l'individuo si perfeziona solo se è libero di realizzarsi come meglio crede; il liberalismo educa gli uomini perché insegna loro ad autorealizzarsi. La meritocrazia risulta strettamente connessa a un'economia di mercato: l'individuo più competente o creativo può rendere migliore l'azienda e quindi viene assunto. Einaudi stesso ha curato direttamente la conduzione della sua azienda agricola in Piemonte, applicandovi le tecniche di coltivazione più moderne. L'autorealizzazione può portare allo scontro tra individui con interessi concorrenti. Questo genere di lotta è però una lotta di progresso: gli uomini sono così costretti ad assumersi la responsabilità (guadagni e fallimenti) delle proprie imprese economiche, senza gravare su altri individui, come invece accade in uno Stato assistenziale. L'ideale liberale è un ideale in costante mutamento: può essere oggetto di critica perché nasce e si nutre di ideali concorrenti. Il liberalismo vive del contrasto. Per Einaudi, con l'eccesso di statalismo si rischia di "impigrire" l'individuo. Portato a disinteressarsi e a non assumersi responsabilità, si lascerà "trasportare dalla corrente", accettando con fatalismo anche illegalità e cattivi servizi, percependoli come prassi. Il liberalismo, diversamente, è una pratica più dura, ma attraverso l'autorealizzazione riesce a responsabilizzare i cittadini. Una società libera ha bisogno di istituzioni minime e basate sulla trasparenza, in modo che siano più vicine al cittadino e da lui facilmente utilizzabili o contestabili: federalismo e decentramento rispondono bene a queste esigenze; Einaudi punta ad un federalismo europeo, con ciò a dire una sola politica economica, un forte esercito europeo in grado di tenere a bada le pressioni provenienti da oriente e in grado di confrontarsi paritariamente con gli USA. Einaudi non vuole la dissoluzione dei singoli Stati ma auspica una federazione europea dotata di varie libertà, soprattutto economiche.
Come governatore della Banca d’Italia, Einaudi si fa fiero esecutore delle sue vedute economiche. L’essenza del suo disegno si basa sull’idea che la ricostruzione economica del secondo dopoguerra debba far leva sul potenziale di iniziativa e di attivismo dei singoli individui. In questo modo il sistema avrebbe assicurato le premesse psicologiche dell’impresa, cioè la garanzia di un ampio spazio di libertà, l’allontanamento di ipotesi contrarie all’economia di mercato, il rifiuto di politiche finalizzate a difendere la socializzazione e la programmazione pianificata, la stabilizzazione della lira. Si tratta di soluzioni che incontrano tuttavia la decisa ostilità di una parte consistente delle forze politiche che siedono nei banchi del governo. La presenza di comunisti e socialisti nelle file degli esecutivi guidati da de Gasperi, nonché le posizioni espresse dai gruppi della sinistra democristiana, tendono infatti a spostare l’asse della politica economica verso un equilibrio distante dal liberalismo einaudiano.
Nel 1947 quando de Gasperi estromette i socialcomunisti dal governo e nomina Einaudi ministro del Bilancio, l’Italia può tuttavia finalmente vedere l’attuazione di un’efficace politica liberale. Nel corso dei mesi trascorsi al governo Einaudi difende più volte le ragioni della sua politica monetaria. La stabilizzazione dei prezzi interni necessita, nella situazione contingente, di manovre deflative e di interventi che mirino alla stabilità monetaria come generatrice di risparmio volontario a fronte del risparmio forzato indotto dall’inflazione; imposizione di tributi ordinari, piuttosto che straordinari; prezzi economici per i produttori e sussidi al consumo; mobilità rispetto all’impiego della manodopera da tutelare attraverso un sistema di sicurezza sociale.
In questa direzione la linea deflativa, necessaria per il rilancio dell’economia interna, avrebbe consentito di raggiungere un ulteriore traguardo. Einaudi, come lo stesso De Gasperi, avrebbe sempre avuto chiaro il senso delle debolezze e dei limiti del sistema economico e politico italiano. Il rischio di un eccessivo, e pericoloso, ripiegamento dell’economia nazionale su se stessa, può essere sventato grazie all’inserimento del paese nel più ampio quadro dei rapporti internazionali che ne avrebbero garantito l’avvenire attraverso un complesso sistema di vincoli.
L’ammissione dell’Italia al sistema creato dagli accordi di Bretton Woods, l’inserimento come membro effettivo nel Fondo monetario e nella Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, la possibilità di usufruire degli aiuti messi a disposizione dal piano Marshall se da un lato offrono importanti opportunità per la ripresa della produttività interna, dall’altra aprono gli spazi per il superamento di una dimensione nazionale dell’economia e vantaggio di una dimensione “globale”, la sola capace di assicurare uno sviluppo economico diffuso e duraturo.
Azione diretta sui redditi, sui risparmi e sui consumi nel quadro di un’economia integrata avrebbero rappresentato gli elementi fondanti di un progetto di ricostruzione di cui Einaudi sarebbe stato il regista economico e De Gasperi quello più propriamente politico. La presenza di Einaudi alla guida del dicastero del Bilancio avrebbe impresso un ritmo determinante al processo ricostruttivo dell’economia nazionale consentendo che, in un clima tutt’altro che favorevole all’affermazione di istanze liberali, fossero proprio queste ultime a dettare il quadro della nuova politica economica dei governi degasperiani. 
Politica economica che purtroppo si interrompe nel 1954 con il prevalere della corrente fanfaniana all’interno della DC. L’avvento di Fanfani alla segreteria DC segna infatti l’inizio dell’interventismo della politica in economia, negli enti pubblici e negli apparati amministrativi dello Stato. Ha così inizio la scellerata politica clientelare e dirigista che non ha più conosciuto argine e che è alla base della crisi italiana attuale. 
Concludiamo il nostro sentito ricordo con una citazione che dà bene conto della grandezza morale di Einaudi: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi”.

Nessun commento:

Posta un commento